mercoledì 6 giugno 2012

Florence Willson

Sconsigliata la lettura a persone facilmente impressionabili, deboli di stomaco, non profondamente sadiche non profondamente masochiste. Se andate avanti lo fate a vostro rischio e pericolo, ovvero, se non volete sentire puzza non cacciateci il naso ;-).
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Florence Willson


Il re Salomone diede alla regina di Saba quanto essa desiderava e aveva domandato, oltre quanto le aveva dato con mano regale. Quindi essa tornò nel suo paese con i suoi servi.
Primo Libro dei Re, X-13


Il ventitsette agosto 1732 i cancelli del mercato di Williamsburg, Colonia della Virgina, si aprirono nella sonnolenta indifferenza di una città soffocata dal caldo afoso di tarda estate.

Pochi, pochissimi, i personaggi che s'aggiravano, alle nove del mattino, nel recinto degli schiavi, per lo più sfaccendati e trafficanti di bassa lega, gente con scarsa moneta e poca voglia di lavorare; i mercanti importanti, quelli grossi di pancia e di borsa, stavano ancora a letto, ancora spossati dall'afa incessante, ancora stremati dall'ennesima notte insonne e per nulla ispirati dall'idea di scendere in campo fin dalle prime ore della giornata. Gli affari migliori, comunque, erano in là da venire e si sarebbero realizzati, forse, molto dopo l'ora di pranzo, con la nuova infornata d'africani stivati nel ventre del "Prince Royale" approdato due sere prima nel vicino porto di Jamestown.

Florence Willson arrivò così, tra l'annoiata curiosità di pochi sfaccendati e la prima calura del mattino, trascinata da un carretto malmesso e cigolante al quale era legata da una corta catena, fissata saldamente al collare ferreo che le stringeva la gola soffocandola ad ogni strattone.

Non esistono, in realtà, cronache dettagliate dell'ingresso di Florence nel mercato degli schiavi di Williamsburg ma, per certo, il suo arrivo dovette sollevare non poca curiosità; la donna, una ragazza per i nostri canoni, aveva poco più di vent'anni, camminava barcollando nella polvere e gemeva come se coltelli roventi le aprissero la schiena ad ogni passo. Vestita d'un sacco di juta, sporca, sudata e stremata, i piedi nudi e sanguinanti non sarebbe stata uno spettacolo granchè orginale in quell'ambiente, abituato a ben altre sofferenze, se la sua pelle fosse stata nera o, almeno, scura.

La donna che arrivò a Williamsburg il ventisette agosto 1732, poco dopo le nove del mattino, trainata a forza, quasi trascinata, da un carretto, soffocata dal collare, i polsi serrati dietro la schiena da nodi di canapa induriti nell'acqua, incespicando nello sterrato a piedi nudi e sguardo basso, umiliata, vinta, martirizzata dal dolore, era, invece, una giovane bianca, occhi verdi, capelli castani tagliati a coltellate in corti spunzoni, che arrancò gemendo e supplicando fino al box numero sette e lì venne gettata in malomodo dal negro nerboruto, violento e scorbutico che l'aveva condotta al mercato. Questa sì, questa era davvero una scena che sembrava sovvertire l'ordine naturale delle cose in una grottesca rappresentazione dell'impossibile.

Florence Willson crollò di schianto sulla paglia lercia del box e, mentre il cancello si serrava sul suo universo di dolore, il custode apriva e leggeva un foglio di procura sigillato dallo stemma nobiliare di Lord Gregory Lucius Willson III, Conte di Drawenshire, suo attuale proprietario. Il foglio, vergato in elegante grafia, delegava al direttore del mercato "la vendita della schiava nominata Florence, possibilmente entro quel giorno e a qualsivoglia prezzo".

L'arrivo di Florence suscitò, quindi, una certa impressione e una notevole curiosità. Qualcuno che sapeva iniziò a raccontare e, mentre il sole picchiava i suoi primi raggi infuocati sui box degli schiavi, la giovane donna apprese, in parole frammezzate da risate e sconci commenti, d'essere una celebrità.

A dire il vero non era una novità per la ragazza, essere una celebrità; figlia d'una mezzosangue mulatta della Lousiana e d'un fattore gallese scampato in America era stata venduta dal padre, per saldare un pesante debito di gioco, all'età di otto anni. Lord Willson l'aveva comprata, ufficialmente, per allietare con la sua presenza la vita breve e tormentata d'una sorella malaticcia ma, in realtà, il suo aspetto di bambolina "quasi bianca" era stato determinante sia nel segnare la sua infanzia di solitudine sia nel condurla fino alla piantagione di tabacco del nobile inglese, nelle stanze lussuose e decadenti d'un castello improbabile edificato nel cuore della Virginia.

Lord Willson era, in fondo e a suo modo, un esteta e possedeva il dubbio gusto dei contrasti: non si sarebbe mai negato il piacere perverso di possedere, in ogni senso e modo quando fosse stato il tempo, una femmina bianca fatta e finita nell'apparenza ma comunque negra e schiava. Florence, infatti, era negra per la legge inglese, negra per Editto Imperiale, negra in un tempo e in un luogo che la volevano negra anche per una sola goccia di sangue nero e lei lo era per molto di più d'un quarto anche se dei suoi parenti africani non solo aveva perso memoria ma ogni, seppur vaga, somiglianza. Eppure quest'apparenza all'Impero non bastava, per sommo diletto di Lord Willson, Florence era e rimaneva negra per legge seppur bianca per aspetto e portamento, negra e schiava, quindi bersaglio indifeso d'ogni e qualsiasi fantasia che il suo padrone volesse sperimentare sul suo corpo, in modo assolutamente legale e con la benedizione di Sua Maestà Britannica.

Dopo la morte di Elizabeth, sua sorella, Lord Willson l'aveva fatta trasferire nelle cucine del castello e lì lasciata, quasi abbandonata, per anni. Quasi abbandonata ma non dimentica: quando il nobile giudicò fosse arrivato il momento di godere, finalmente, delle sue grazie, la ragazza avrebbe dovuto, per quei tempi e per quell'età, essere già sposa e, magari, gravida di qualche marmocchio. Eppure, nonostante l'età appropriata e le sensuali sembianze del suo corpo, nessuno degli schiavi aveva mai, neanche lontanamente, pensato a lei come moglie o come madre dei propri figli; che fosse destinata ai piaceri dissoluti del padrone era chiaro e naturale per tutti, tutti lo sapevano e lei, se ancora non ne aveva cognizione, lo apprese in modo traumatico e devastante pochi giorni dopo il suo sedicesimo compleanno.

Lord Willson era tanto eccentrico quanto perverso; il suo castello, una rocca inglese del tredicesimo secolo, edificato al centro dell'immensa piantagione di tabacco, era stato smontato fino alle fondamenta e ricostruito pietra su pietra in Virginia. Il contrasto tra la pesante struttura medioevale del palazzo e le circostanti baracche degli schiavi era stridente e inquietante; stridente quanto bastava per soddisfare lo spirito di contraddizione del nobile britannico, inquietante quanto bastava per terrorizzare i negri della piantagione che, negli anni, avevano sviluppato una serie impressionante di leggende sugli orrori celati tra corridoi e segrete del castello, non tutti e non del tutto frutto di semplici, infondate, fantasie.

Fu così che Florence, appena sedicenne, accompagnata dal terrore d'un destino oscuro, impressionata a morte dai macabri racconti degli schiavi, vestita unicamente d'un soffio di lino candido, camminò sola, di notte, a piedi nudi come uno spettro diafano, tra le opprimenti pareti di corridoi angusti, alla luce incerta di un candelabro che illuminava di tanto in tanto i volti austeri di nobili avi, dipinti nell'interminabile serie di quadri appesi, uno appresso all'altro, sul filo corrotto della consunzione. Fu così che giunse alla porta del padrone, chiamò a se tutto il coraggio che l'era rimasto nell'anima, bussò, nocche sbiancate su legno massicio, e attese, cuore impazzito, sulla soglia dell'ignoto. I colpi lievi s'erano persi in un silenzio che l'era sembrato durare in eterno poi, finalmente, passi pesanti e il cigolare spettrale di cardini.

Oltre quella soglia era iniziato il suo viaggio, un viaggio lungo e tortuoso, delirante e folle nei piaceri del suo padrone, un viaggio fatto di pratiche oscene e morbose depravazioni che mai avrebbe immaginato potessero esistere sulla faccia della terra.

La prima notte di Florence tra le braccia del padrone era stata, per la ragazza, assolutamente sconvolgente; Lord Willson non era nato per accontentarsi e, come al solito, non s'accontentò. Sebbene la giovane fosse stata brevemente istruita qualche ora prima da una vecchia megera scorbutica non poteva essere preparata, nessuna avrebbe potuto esserlo, alla fame cruda e sfrenata del suo depravato padrone. Eppure, al contrario di altre che l'avevano preceduta, Florence imparò molto presto ad assecondare e saziare quella fame smodata e perversa appagando con altrettanta depravazione gli appetiti del padrone e guadagnando, notte dopo notte, la compiacente ammirazione del nobile debosciato.

Quattro anni dopo e poco più che ventenne Florence aveva già sperimentato ogni colore e ogni sapore delle morbose fantasie di Lord Willson, delle sue abiette perversioni, delle sue sordide attitudini.

All'età di vent'anni Florence iniziava la sua giornata tergendosi con cura e in profondità l'ano, allargando con le dita il buchino posteriore e infilandovi umide salviette di lino profumate di rosa.

All'età di vent'anni Florence continuava le sue abluzioni mattutine lavandosi e depilandosi la vulva con la lama affilata d'un rasoio da barba, inginocchiata a cosce larghe sul pavimento della sua stanzetta, usando un piccolo specchio che le rifletteva il sinuoso percorso del filo mortale, dentro e fuori la carne tenera del suo stesso sesso.

All'età di vent'anni Florence s'immergeva in una vasca d'acqua calda e si lavava coscenziosamente in ogni anfratto, bagnando i capelli castani, morbidi come seta, lunghi fino alle natiche, con acque limpide e schiumosi saponi. Alla fine del bagno usciva dalla vasca grondante e tiepida, s'asciugava il corpo e i capelli, concludeva profumandosi le ascelle e il pube con costose essenze floreali.

All'età di vent'anni Florence indossava, ogni mattina come in un rito sacro di vestizione, uno stretto corsetto nero di raso sulla pelle nuda, stringendo davanti ad uno specchio enorme i numerosi laccetti ed esaltando il candore abbagliante della sua pelle, la pienezza statuaria delle natiche, i seni sodi, gonfi, sfacciatamente protesi; sul corsetto e senza frapporvi altro indumento, lasciava scivolare un abito leggero in rossa seta pregiata decorato a broccato orientale, lungo fino alle caviglie e stretto intorno alla gola in un colletto alto, rigido, soffocante; un abito con decine di piccoli bottoni, quasi monacale nel taglio ma tanto leggero da essere un soffio sui capezzoli forati e inananellati, una carezza lasciva sul pube rasato, una lieve cortina tra la sua carne e gli appetiti del padrone, tra la sua carne e i desideri dei maschi, tra la sua carne e la sorda invidia delle femmine. Un abito sobrio ma osceno dal quale Florence riceveva in ogni momento lussuriose carezze di seta e dal quale ostentava, aperti i primi bottoni, le sue forme sode e perfette a Lord Willson, nell'intimità delle sue stanze o nella penombra delle segrete.

All'età di vent'anni Florence, così acconciata, conduceva il suo lavoro giornaliero nelle cucine del castello, controllava e ordinava, dirigeva e rimproverava le schiave, tutte e indistintamente, sottoposte al suo arbitrio, ai suoi capricci. Così acconciata lei, e solo lei, serviva ogni pasto al suo solitario signore e offriva oscenamente il suo corpo per soddisfare ogni desiderio del nobile depravato, in qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualsiasi stanza o corridoio o cubicolo dell'immenso castello.

All'età di vent'anni ben poche erano le cose che le venivano precluse, ben pochi i doveri ai quali, oltre alla soddisfazione del padrone, dovesse attenersi; tra questi uno era fondamentale e l'era particolarmente gradito: non doveva mai e per nessun motivo lavare o asciugare lo sperma di Lord Willson dopo esserne stata schizzata o riempita. Florence di questo dovere era sommamente orgogliosa e, con viscidi rivoli colanti lungo le cosce, come battezzata in messa blasfema, continuava esaltata il suo lavoro tra le schiave, invidiata per la sua vita lussuosa e dissoluta, odiata per il colore della sua pelle, temuta per il suo potere nelle stanze del castello, maledetta per la sua stessa presenza sulla faccia della terra.

Alla lunga Florence che, come tutti gli schiavi, aveva assunto il cognome del padrone s'illuse d'averne carpito anche il cuore e l'anima; giorno dopo giorno, assecondando mansuetamente ogni depravazione del nobile e, anzi, a sua volta suggerendo nuove ed eccitanti varianti all'uso del suo corpo, arrivò a sentirsi più padrona che schiava, più moglie che oggetto di piacere. Di questo stato mentale, di questa pericolosa illusione, di questa ingenuo miraggio, Lord Gregory Willson s'era accorto molto presto e, perversamente, concedeva alla ragazza una libertà che, agli occhi dei suoi amici, appariva ripugnante e grave tanto più la giovane, con loro stessi, assumeva atteggiamenti d'equivoca familiarità, in questo istigata e protetta dal padrone e dal suo degenerato gusto per la provocazione.

Lord Gregory, più eccitato che inibito dalle critiche, iniziò quindi a tenerla presso di sè sempre più spesso e portarla nelle segrete anche quando somministrava ad altre schiave, colpevoli di qualche mancanza reale o inventata, le sue scellerate punizioni. Florence scoprì in questo modo, e integralmente, la sua stessa morbosa natura svelando un'attitudine sadica che deliziava ed eccitava visceralmente il nobile depravato. Non le fu mai concesso di frustare lei stessa e di suo pugno le schiave nude, inermi e piangenti legate alle travi delle segrete, a quel compito era preposto Jeremy, lo stalliere, ma più d'una volta le fu concesso il piacere sordido di decidere quanti colpi di flagello avrebbero meritato le colpe che, sempre più spesso, riportava al padrone attribuendole malignamente alle ragazze del castello, anch'esse schiave ma con la sfortunata ventura di essere anche più scure, molto più scure, della loro aguzzina.

Florence non fu mai parca nel decretare la punizione, mai fu ingenerosa nel conteggiare innumerevoli e dolorosi colpi di flagello, mai si riservò e si trattene dal donare al padrone interminabili ore di sofferenza, secoli d'urla strazianti e suppliche pietose, millenni di leziosi svenimenti.
Presa da questo gioco ed esaltata dal suo potere, una sera in cui si sentiva particolarmente predisposta, scivolò in ginocchio tra le gambe di Lord Willson e, guardandolo con espressione accesa di lussuria, lo coinvolse in una fantasia di perversa crudeltà che per settimane aveva accarezzato nella mente e stuzzicato nel corpo, selvaggiamente eccitata dal suo stesso delirio di depravazione.

Una ragazza poco più giovane di lei era legata alla trave della segreta, denudata e tremante di terrore, i polsi stretti in dure corde di canapa, i seni pieni, il ventre piatto impietosamente ed oscenamente esposti alla vista di Lord Willson.

Florence pregò il padrone, lo implorò, di lasciarle succhiare la sua verga, lasciare che la sua bocca conservasse al caldo la sua eccitazione mentre lui godeva della sua giustizia. Voleva, desiderava, sospirava, che fossero le sue labbra, la sua lingua agile, la sua bocca sensuale e dolce di depravazione a decretare quanto dovesse durare la punizione della schiava. Lo pregò, lo supplicò, di ordinare a Jeremy di frustare la penitente fino a quando il seme salato del padrone non le fosse schizzato sul palato e colato in gola, tutto, tutto fino all'ultima goccia. 
L'uomo intuì che la sua schiava era gelosa, mortalmente gelosa, dell'attenzione che stava rivolgendo a quel corpo indifeso; questo intuì e ne fu deliziato; lasciò che Florence prendesse tra le labbra il suo membro già duro, ne leccasse con avidità la punta liscia e gonfia, ne succhiasse il sapore di sudore misto al sentore d'orina, ne assaporasse la consistenza.

Fu lunga e dolorosa la fustigazione della ragazza, fu lunga dolorosa e intensa; quando staccarono la sventurata dalla trave era praticamente morta: solo un miracolo e unguenti speciali la salvarono, a stento, dalla tomba. Jeremy, che aveva dovuto più volte alternare la mano con la quale somministrava i colpi di flagello, stette tre giorni con vistose bende ai polsi. Florence, che mai aveva succhiato tanto a lungo il membro di Lord Willson, che mai aveva inghiottito con ingorda lascivia tanto sperma, fu congedata senza altre richieste e rimase quasi delusa di questo trattamento seppure nel cuore si sentì orgogliosa e felice d'avere, ancora una volta, stupito e soddisfatto il padrone.

Questo modo inusuale e sconcio di conteggiare la durata delle punizioni diventò normalità nella piantagione e ben presto la disciplina, già ferrea, di Lord Willson si trasformò, per le ragazze più attraenti, in una pietosa e continua marcia forzata verso l'inferno delle segrete. Florence gioiva e godeva del suo potere ma desiderava altro, desiderava ben altro, desiderava tutto e non meno di tutto. L'unica cosa che ancora non le veniva concessa e non poteva gustarsi erano le fustigazioni, dure e cruente, a volte mortali, inferte ai braccianti della piantagione. Lei stessa immaginando i corpi muscolosi degli schiavi legati alla trave, raffigurandosi i loro sessi oscenamente esposti e oscillanti sotto le sferzate e ascoltando, eccitata a sangue, gli urli disumani che giungevano attenuati ma distinti dalle segrete, lei stessa capiva perché Lord Willson difficilmente le avrebbe concesso d'assistere a quelle torture.

S'accontentava, per ora, d'immaginarle e nell'immaginare i membri giganteschi degli schiavi torturati a morte, i loro corpi muscolosi d'ebano nero grondanti di sangue e sudore, le loro urla strazianti di suppliche inascoltate s'impregnava, come immersa in olio viscoso, di perverso desiderio, di morboso appetito, di sordido piacere. Immergeva le dita nel lago rovente del suo sesso e scavava nelle profondità della sua eccitazione fino a quando veniva in orgasmi squassanti gemendo oscenità nel cuscino. Immancabilmente e sempre l'orgasmo più devastante le sopraggiungeva mentre sognava d'essere lei stessa la carnefice, l'aguzzina, la padrona e, frusta alla mano, aprire profonde, mortali ferite nelle schiene dei suoi schiavi, strapparne a frustate la carne, il membro, i testicoli, evirarli e succhiarne i sessi troncati prima d'assaporarne, sotto i candidi denti, tra lingua e palato, il gusto selvatico di sangue e di sperma.

Continuava così, tra illusioni e sogni sanguinari, la vita serena e perversa di Florence Willson, quasi bianca, quasi moglie, totalmente depravata negli atti e nelle fantasie, totalmente odiata dagli schiavi, totalmente immersa in un delirio di potere tanto pericoloso quanto impossibile.

Continuava così la vita serena e perversa di Florence e neanche l'arrivo di una scialba, insignificante pretendente, fidanzata per procura dalla lontana Inghilterra turbò i due o li potè distogliere, neanche per un attimo, dai loro giochi. Mary Rosaline, duchessa di qualchepaese venne e partì convinta che il futuro marito avesse trovato una prefetta governante bianca, piena di grazia e gentilezza, semmai un poco yankee, semmai esageratamente puritana e costantemente impegnata a celare in ampi e scuri vestiti le sue forme, semmai fin troppo devota e un pizzico bigotta ma, comunque, di piacevole compagnia. Ignorava, e quindi non potè riferire all'augusto padre, che la deliziosa Florence, puritana, ritrosa, bigotta non era per niente muta ma rispondeva con segni e cenni del capo solo perché la sua bocca era costantemente colma dello sperma del suo padrone, sperma che doveva attingere da una bottiglietta in cristallo ogni qualvolta chiamata dall'intrusa e, sempre, prima di presentarsi a lei. Non si chiese mai Florence, dal canto suo, se il contenuto di quella bottiglietta di cristallo provenisse realmente ed unicamente dai testicoli di Lord Willson ma, conoscendo il suo depravato quanto immorale padrone, avrebbe dovuto seriamente, molto seriamente, pensarci.

La visita di Mary Rosaline fu breve, qualche settimana, una mera formalità per un matrimonio combinato, già deciso e basato su solide e tangibili convenienze economiche: le nozze di Lord Gregory furono fissate per l'anno a venire e dell'argomento non si parlò più. Florence non ebbe comunque il tempo di chiedersi come avrebbero potuto, dopo le nozze del padrone, continuare i loro giochi perversi e, semmai ne ebbe il tempo, siamo sicuri che non se lo chiedeva più alle undici e dieci del ventitsette agosto 1732, i lunghi capelli tagliati a colpi di coltello in cioche scomposte, la polvere sulla pelle, la gola stretta nel collare mentre veniva trascinata, incespicando e singhiozzando, sul palco del mercato.

"Lotto numero sette, cuoca esperta, sana, ottima come fattrice, già esplorata davanti e dietro, buona per ogni occasione, con piccolo difetto fisico di trascurabile entità … prezzo a base d'asta dieci sterline."

Prezzo a base d'asta dieci sterline, come dire offerta libera, neanche il prezzo di uno schiavo qualsiasi sulle coste africane. Questo il suo padrone l'aveva valutata, niente e nulla, solo un fastidio da togliersi di torno.

L'altra, l'ashanti, la troia, era stata proposta sullo stesso mercato con base d'asta di trecento sterline e, alla fine, Lord Willson l'aveva avuta per duemilaottocento. Con lo stesso prezzo avrebbe potuto raddoppiare la manodopera della piantagione.

Poche settimane prima, solo poche settimane prima ma nella vita di Florence erano millenni di sofferenze, secoli dall'inizio dell'inferno in terra.

"Vediamola bene 'sta cuoca, toglile il sacco!"

Florence alzò per un attimo lo sguardo verso il pubblico di mercanti, tra loro quanche ombrellino da signora, signora bianca, vera signora bianca; per la prima volta in vita sua si vergognò, mortalmente. Mani rudi la tirarono in piedi, un coltello brillò nel sole accecante della Virginia e in pochi secondi lei rimase nuda, i polsi ben stretti dietro la schiena, i seni esposti, alti, sodi, il ventre levigato e umido di sudore, il sesso depilato, totalmente, impietosamente offerta agli sguardi eccitati dei compratori, al giudizio delle poche ed agiate, quanto curiose, signore dabbene che stavano oltre lo steccato a godersi lo spettacolo della sua vendita.

"Belle tette! Bella pancia. Facci vedere anche il culo …"

Gli affari sono affari e i clienti avevano tutti i diritti di valutare apppieno la mercanzia, prima d'acquistare: venne girata con brutalità su se stessa in modo da rivolgere schiena e natiche al pubblico impietoso. La mano sporca e callosa del custode la costrinse a piegarsi profondamente in avanti spingendole la nuca in basso, fin quasi a perdere il già precario equilibrio; le venne imposto, a forza e con il tocco persuasivo del manico d'una frusta, di divaricare le cosce. Così fu lasciata fino alla fine dell'asta, quasi strozzata dal collare, le mani legate dietro la schiena, scomodamente quanto oscenamente esposta, in modo da ostentare, peggio di una bestia e senza ombra di pudicizia, sedere e sesso al morboso ludibrio dei compratori.
"Chi è quella?"

Florence aveva quasi assalito Lord Willson sui gradini dell'ingresso, un'azione sicuramente disdicevole per una schiava, se solo lei si fosse sentita una schiava. Lord Willson l'aveva guardata con un certo divertito disprezzo ed era passato oltre.

Occhi negli occhi lei e la nuova, lei e l'ashanti. Odio profondo, immediato, reciproco. La negra aveva girato la testa ma solo per farle dispetto, per toglierle il gusto della sfida e poi, con calma, aveva sputato per terra.
Era bella, era sicuramente bella la nuova, l'ashanti. Era africana, pura, nera come una notte di velluto, gli occhi scintillanti, il naso sottile, il volto nobile, il seno pieno, le gambe dritte e muscolose, i glutei duri e lo sguardo da principessa. Era bella, la nuova, e lei si sentiva già vecchia, già superata, in bilico tra la paura e il terrore.

S'era avvicinata alla donna, ancora legata alla carrozza del padrone, e le aveva girato la testa con rabbia, prendendone il viso tra le mani:

"Sei morta bagascia negra, capisci la mia lingua? Sei morta."
"Capisco la tua lingua, la capisco e la parlo. Parlo molte lingue dei barbari e tra queste anche quella del tuo padrone …"
"Una negra istruita, meglio così, capirai bene quello che ti dirò mentre ti strapperò il cuore."

L'ashanti l'aveva squadrata con disgusto, come fosse, lei schiava, lei negra, lei carne da macello, sul trono di qualche regno antico e dovesse degnare d'uno sguardo un oggetto immondo.

"So chi sei troia bianca, tutti sanno chi sei. Sei una negra che non è negra, una bianca che non è bianca … cosa vuoi fare, tu, più di quello che hanno fatto loro? Io sono già morta, mesi fa, ma tu, tu non sei mai neanche nata e morirai presto, prima di quanto immagini."

S'erano guardate negli occhi allora, non s'erano più guardate negli occhi, mai più, dopo.

La nuova cucina arrivò lo stesso giorno, moderna, efficiente, bella e colorata. Ghisa, si chiamava così il nuovo materiale con il quale era stata costruita, il metallo che avrebbe aperto le porte al progresso. Florence non sapeva che il Signor Abraham Darby aveva brevettato quel materiale solo qualche anno prima, nel 1709, e già quel ferro che non era ferro stava cambiando il mondo, accorciando le distanze, trasformando la terra. Poche gocce di sangue nero facevano di lei una negra in Virginia, poche gocce di carbone trasformavano il ferro in ghisa in tutto il mondo.

Quante cose potrebbero essere fatte se sapessimo leggere con chiarezza tra le similitudini e le differenze e sapessimo usare queste e quelle per migliorare il mondo.

La sera, subito dopo cena, Florence fu punita duramente e Makeda, l’ashanti, fu punita con lei, nello stesso momento, nello stesso posto, dalla stessa mano, con lo stesso flagello, a futura memoria per Florence, a futura memoria per entrambe; entrambe legate, braccia tese e polsi slogati, alla trave del soffitto; entrambe nude, in punta di piedi sul pavimento gelido della segreta, una al fianco dell’altra, vicine, tanto vicine da sentire, una dell’altra, l’acre odore di paura scorrere a rivoli con il sudore gelato lungo i corpi tesi e vanamente scalcianti nella disperazione della sofferrenza. A futura memoria per entrambre, a futura memoria per Florence.

Il giorno dopo, verso mezzogiorno, Lord Willson piegò disgustato il giornale e lo ripose sul tavolo, vicino al piatto coperto. Sempre le stesse cose, sempre le stesse notizie; gli americani protestavano chiedendo al governo della madrepatria una drastica riduzione delle tasse d’importazione, qualche esaltato abolizionista pretendeva la fine delle leggi schiaviste, un paio di meticci fuggitivi avevano massacrato una famiglia di coloni ed erano finiti sul patibolo di una contea dispersa nel sud della Virginia, a poche miglia dalla Louisiana, brutto affare, davvero disdicevole affare questa liberalità dei francesi con i mezzosangue. Sollevò il coperchio pregustando la bistecca che Florence gli aveva servito e fissò incredulo, per più di qualche momento, lo spettacolo del suo piatto occupato dai resti carbonizzati d’un filetto di vitello.

Alzò lo sguardo dal tavolo con flemmatica, divertita tranquillità e fissò Florence che attendeva, come al solito, ad occhi bassi e braccia dietro la schiena, gli ordini del padrone. L’ombra d’un sorriso malizioso e trionfanate illuminava il volto della ragazza. L’ombra d’un sorriso, inquietante e perverso e adombrava il viso di Lord Gregory Willson.

“Florence, sai spiegarmi cosa c’è nel mio piatto?”
“Una bistecca di filetto signore, come lei ha ordinato, signore. Ben cotta, signore.”
“Ah, bene, ecco, lo avevo intuito. Puoi andare, ti chiamerò più tardi.”

Florence s’allontanò verso la porta camminando all’indietro e quando fu sulla soglia s’inchinò con enfasi per ostentare agli occhi del padrone i seni pieni, quasi straripanti dal vestito di seta maliziosamente aperto sulle sue grazie. Generosamente offerti alla vista del padrone i seni della ragazza non aveva mai mancato di suscitare effetti afrodisiaci nei pantaloni del nobile pervertito ma questa volta la cosa andò diversamente, questa volta, quando Florence alzò lo sguardo dal pavimento, rimase delusa, mortalmente delusa: Lord Willson aveva ripreso il giornale e, gambe accavallate a lato del tavolo, stava leggendo con attenzione altri articoli, evidentemente più interessanti dei suoi.

Arrivò la sera senza che nessuna punizione le venisse somministrata e poi giunse anche l’ora del riposo. Florence attendeva, sempre più in ansia, la reazione del padrone: conosceva fin troppo bene Lord Gregory per sperare di farla franca dopo la scenetta di mezzogiorno. Passarono le ore scandite, nel silenzio del palazzo, dal pendolo dell’antico orologio d’ebano nero che Lord Willson aveva recuperato tra le macerie d’un castello caduto in rovina secoli prima. Passarono le ore per Florence, tra paura ed angoscia, sussultare di nervi ad ogni scricchiolio del pavimento e vana speranza d’essere stata, almeno per quella notte, graziata. Verso le due, finalmente, la stanchezza ebbe ragione sull’apprensione e lei scivolò in un sonno leggero ed inquieto. Non si rese conto, in questo modo, a quale ora le sue ansie assunsero brutalmente la forma e la consistenza della realtà. Venne svegliata bruscamente da mani forti, callose, dure che la buttarono impietosamente a terra. Le stesse mani le ghermirono i lunghi capelli e la trascinarono così, a viva forza, nuda e scalciante, attraverso i corridoi oscuri del castello fino alla sala da pranzo dove fu gettata, come un sacco di concime, ai piedi di Lord Willson.

Sul bordo del lungo tavolo, dalla parte in cui usualmente il nobile consumava i suoi pasti solitari, era stata coricata e saldamente legata a cosce oscenamente divaricate, l’ashanti. Alla luce delle candele il suo corpo nudo e sudato rifletteva scintille di lussuria e ricordi di rituali perduti. Sembrava essere stata disposta così per essere immolata, come una vittima sacrificale, al piacere di Lord Gregory, divaricata, aperta nell’intimità e pronta a riceverne il membro duro e corposo fin dentro la sua stessa essenza. Inerme, indifesa, esposta, i capezzoli sanguinanti brutalmente trafitti con rozzi aghi di ferro, pestata duramente sul volto con calci e pugni, eppure ancora principesca nella figura e nella voce, persino mentre gorghi di saliva, muco e sangue le intasavano il naso, la gola, l’esofago in rochi gemiti gutturali di delirante dolore.

“Vieni Florence, vieni qui baldracca, vieni a vedere che colore ha la carne ben cotta, guarda .. guarda bene.”

Lord Willson l’aveva fatta inginocchiare a forza davanti alla vulva splancata dell’ashanti, in modo che i suoi occhi fossero di poco sotto il sesso della negra.

“Visto Florence? Visto bene? Rosa e rosso, dentro, anche se fuori è tutto nero. Così volevo la mia bistecca, oggi, hai capito? Hai capito?”

Le aveva spinto con violenza la testa contro il tavolo e s’era goduto con sadico piacere il rumore secco del naso che impattava contro il bordo tagliente; solo per un miracolo non le si ruppe il setto nasale ma non importava, non era mai importato, a Lord Gregory, che il suo naso fosse dritto o storto, che lei fosse viva o morta; mentre il sangue le sgorgava copioso dalle narici mescolandosi a lacrime di rabbia e dolore Florence, intuiva, sapeva, che la punizione non era ancora finita.

“Allargale la fica, ben larga, e tienila aperta, non è bagnata come la tua, è secca, questa non gode quando le prende.”

Florence allargò con dita tremanti, con entrambe le mani, le grandi labbra della schiava e sentì il padrone sovrastarla, lo intravvide dal basso, nella luce incerta delle candele, nell’ombra soffusa del dolore, estrarre dai calzoni il membro duro, teso, marmoreo e scappellarlo con lenta lascivia. Lo vide puntare il glande tra le sue mani, vide il membro scivolare, caldo e liscio, sfirando le sue dita tra le intime labbra della negra aperte al suo ingresso e affondare con violenta passione nelle viscere dell’ashanti, passando con indifferenza ad un soffio dalla sua testa, ad un fremito dalla sua fronte.

“Guarda Florence, guarda bene troia, guarda come mi fotto la tua amica, guarda e non abbassare gli occhi o te li strappo con le mie stesse mani …”

Florence guardò, guardò inferocita, guardò umiliata il membro del padrone entrare ed uscire innumerevoli volte dal sesso della schiava nera, sopra di lei, mentre lei, lei in ginocchio, lei annullata, lei osceno oggetto d’arredo per la lussuria del padrone, lei teneva aperte, inutilmente ma vergognosamente, le porte del piacere nel quale Lord Gregory affondava selvaggiamente la sua asta. Florence sentiva i testicoli dell’uomo sfiorarle la fronte, sentiva nelle narici, frammisto all’odore del suo stesso sangue il profumo penetrante e selvatico dell’ashanti. Quell’odore, quel trasudare di sesso poco sopra il suo volto, quel vago sentore di piacere maligno estorto ad un corpo costretto dalle corde e dalle percosse, le soffocava l’anima e la strozzava, le toglieva il respiro, la distruggeva, annientava, colpo dopo colpo, ogni sua illusione, ogni sua speranza, ogni attimo d’esaltato compiacimento.

Lord Gregory venne dopo un tempo che a Florence sembrò infinito. Allagò prima il sesso dell’ashanti e poi, spruzzo dopo spruzzo, riempì anche la sua fronte di densi schizzi bianchi. Mentre rimaneva in ginocchio davanti al sesso aperto della sua rivale, mentre osservava il lento fluire di sperma dalla vulva dell’ashanti sul ripiano del tavolo, mentre lei stessa sentiva scivolare sul suo volto rivoli di seme caldo e viscoso il padrone si ripulì la punta del membro usando i suoi lunghi capelli di seta e le orinò sul viso, in un gesto d’assoluta e sprezzante indifferenza. Fatto questo, e soddisfatto della sua opera, Lord Willson si ricomporse e s’avviò al meritato riposo, non prima, però, d’aver impartito le sue ultime disposizioni.

“Slegala, lavala e portala nelle segrete, a lei penserà Jeremy. Domani a pranzo filetto di vitello, ben cotto. Mi raccomando Florence, ben cotto.”

Chiuse la porta e le lasciò, entrambe, nella luce fioca del candelabro che ardeva le ultime tenui fiammelle. Nella luce fatua di candele morenti l’ashanti gemeva litanie funebri in una lingua sconosciuta e Florence, ancora in ginocchio, dolorante, umiliata, furiosa, si ripuliva con il dorso delle mani le labbra bagnate d’orina. Fu allora che s’accorse, con sospresa, mentre inghiottiva suo malgrado i grumi del suo stesso sangue e lo sconcio aroma del padrone, d’essere lei e non l’ashanti a singhiozzare nel nulla angosciante della stanza. La schiava nera, ancora legata, ancora divaricata come una bestia da monta e ancora bagnata, colante, dello sperma di Lord Willson, ancora sprofondata nel dolore, serrava le labbra e ascoltava, immobile, con odio impietoso, con un sorriso di delirante trionfo, il pianto della schiava bianca.

Il giorno dopo, verso mezzogiorno, il padrone piegò disgustato il giornale e lo ripose sul tavolo, vicino al piatto coperto. Sollevò il coperchio pregustando la bistecca che Florence gli aveva servito e fissò, per qualche momento, incredulo, lo spettacolo del suo piatto occupato dai resti carbonizzati di un filetto di vitello.
Alzò lo sguardo con flemmatica curiosità e fissò Florence che attendeva, come al solito, ad occhi bassi e braccia dietro la schiena, gli ordini del padrone. Il viso tumefatto e pesto della ragazza testimoniava alla luce del giorno la realtà della dura punizione notturna, i capelli cascavano al lato del volto sporchi e arruffati, lasciati andare a se stessi per la prima volta dopo anni di cure puntigliose e lavaggi quotidiani.

“Florence, sai dirmi cosa c’è nel mio piatto?”
“Una bistecca di filetto signore, come lei ha ordinato stanotte, signore, ben cotto. Signore.”
“Ah, ecco. Dimmi Florence com’è la nuova cucina?”
“Bella signore, mi piace, rossa come il fuoco che le brucia nella pancia, con deliziosi fiorellini gialli disegnati sugli sportelli.”
“Bene Florence e, dimmi ancora, è facile da usare?”
“Si signore, molto semplice, si scalda subito e consuma pochissima legna.”
“Bene, sono contento che incontri il tuo gusto, puoi andare, ti chiamerò più tardi.”

Non la chiamò più tardi e nemmeno fu trascinata nelle segrete o nella sala da pranzo. Vennero in tre, forse quattro, vennero di notte, vennero incappucciati, vennero, inviati da Lord Willson, e la strapparono dal letto trascinandola a forza sull’aia. La legarono alla cima inanellata di un palo che avevano piantato proprio per lei, proprio per la sua festa di plenilunio. Per arrivare all’anello di ferro, e qui fissarle i polsi in rozzi giri di corda, le braccia le furono tese a forza sopra la testa, slogate brutalmente e dolorosamente fin quasi a lussarne le articolazioni. In questo modo Florence si mostrava ai suoi aguzzini, involontariamente e per la prima volta in vita sua senza ricavarne alcun piacere, nella sua più cruda bellezza.

I seni pieni sollevati ed esposti, il ventre stirato e ancor più appiattito dalla postura, le natiche perfette di muscoli e carne, le cosce, le gambe snelle e toniche, il corpo intero impegnato nello sforzo immane di poggiare sulle punte dei piedi almeno un poco del peso che le gravava sulle braccia slogate, paralizzandole il torace e strappandole il respiro, l’intera figura della giovane donna legata al palo, vittima sacrificale d’una religione blasfema, appariva, nella luce quasi abbagliante della luna piena, come un’opera d’arte d’inquetante e dolorosa bellezza.

Nella nebbia del dolore sentì una mano prenderle i capelli e tagliarle brutalmente, a coltellate e ciocca dopo ciocca, la chioma di seta.

“Il padrone ha detto che vuole un cuscino fatto coi tuoi capelli troia bianca, sei contenta?”

Riconobbe la voce di Jeremy, la riconobbe nell’odio e nella brutalità dell’accento ma soprattutto la riconobbe nel tanfo di marcio che la investì mentre l’uomo le parlava sfiorandole il volto con le labbra e sputandole addosso le parole.

Fu rapido, per lo meno, ma non per pietà. C’era molto da fare sul suo corpo e con il suo corpo, molto da fare e di molto più interessante.

Il primo a sollevarle e allargarle le cosce artigliandole con dita legnose fu proprio Jeremy; lui non ebbe bisogno d’aiuto per inchiodarla con la schiena al palo e fottersela a duri, violenti, profondi colpi di reni. Florence gli fu quasi grata mentre riceveva nel ventre il suo uccello gigantesco, gli fu grata perché mentre se la scopava come una bestia almeno la teneva alzata da terra e le sue braccia, ormai del tutto anchilosate, non dovevano reggere da sole il peso di un corpo più morto che vivo. Jeremy non fu né rapido né clemente, questa volta, e quando venne dentro di lei lo fece con odio, disprezzo e crudeltà. Finito di riempirla del suo sperma le si avvicinò con le labbra all’orecchio le sibilò un augurio agghiacciante.

“Spero che rimani incinta troia, spero che stanotte rimani incinta così ci sarà un altro negro bastardo in giro per il mondo e una puttana bianca che se lo deve allattare”.

Gli altri non erano così forti da potersela godere come aveva fatto Jeremy, uno dopo l’altro chiesero l’aiuto fraterno dei solerti compagni: mentre due la sorreggevano con le cosce divaricate un terzo, a turno, se la fotteva rudemente sbattendola contro il palo di legno, assaporandone la morbida pelle in morsi crudeli e lunge sconce leccate, palpandola come una vacca, schizzando, con sadico gusto di rivincita, denso seme africano in quella fessura che fino a qualche giorno prima era appartenuta, solo ed unicamente, ad un blasonato lord ingelse. Finirono presto, tutto sommato, ma non abbastanza presto per Florence. Quando furono soddisfatti del loro lavoro, alla maniera di Lord Willson, le orinaro addosso e la lasciarono sola e gemente sull’aia, sotto una luna piena tanto luminosa quanto insensibile, lontana ed estranea a quel profondo, insanabile dolore del corpo e dell’anima che, colpo dopo colpo, aveva assunto, per Florence, l’aspetto bizzarro della follia.

La quieta ed alienata solitudine di Florence non durò, purtroppo per lei, a lungo: un altro incappucciato, questo molto più grande, massiccio e spaventoso dei primi arrivò sulla scena quasi in silenzio, quasi come uno spettro d’altri tempi. Arrivò in silenzio, in silenzio srotolò lentamente, molto lentamente, una lunga frusta da bovaro e la fece schioccare un paio di volte a pochi centimetri dalla sua pelle. Florence sentì il soffio crudele del cracker che la sfioravava e poi, subito dopo, quando il suo carnefice decise che la ragazza poteva essere suffcientemente terrorizzata per iniziare, sentì il bruciore intenso del primo colpo andato a segno sul seno destro. Ne contò venti, forse trenta prima di svenire urlando e gemendo bestemmie, svegliando i pochi schiavi dispersi nella piantagione e ancora addormentati in quella notte di sciagura. Furono colpi, tutto sommato, neanche troppo duri, davvero, non ci fu neanche bisogno di ricucirla, non tanto, almeno.

Passarono giorni prima che Florence riuscisse ad alzarsi. Annebbiata dalla febbre, oppressa nel delirio del dolore, debole e barcollante, trascinandosi lungo i corridoi, poggiandosi alle pareti, scivolando in ginocchio più e più volte, riuscì ad arrivare alle cucine. Passarono giorni prima che Florence riuscisse ad alzarsi e raggiungere le cucine ma quel giorno servì lei stessa il pranzo a Lord Willson.

Verso mezzogiorno, il padrone piegò disgustato il giornale e lo ripose sul tavolo, vicino al piatto coperto. Sollevò il coperchio pregustando la bistecca che Florence gli aveva servito e fissò, per qualche momento, incredulo, lo spettacolo del suo piatto occupato dal cadavere, perfettamente cucinato, d’un ratto gigantesco, scuoiato, ripulito a dovere e preparato in agrodolce.

Alzò lo sguardo con flemmatica curiosità e fissò Florence che attendeva, come al solito, ad occhi bassi e braccia dietro la schiena, gli ordini del padrone. Martoriata dal dolore, distrutta da giorni di febbre e debole come mai era stata in vita sua la ragazza aspettava in silenzio, ostinata e scontrosa, l’ira del padrone.

“Florence, tesoro, cosa c’è nel mio piatto?”
“Selvaggina signore, ben cotta signore, spero che sia di suo gradimento. Signore.”
Lord Willson aveva un senso dell’umorismo e un gusto del macabro unici al mondo; sorrise a Florence e tagliò con cura un pezzo di ratto, lo portò alle labbra, l’addentò e lo masticò lentamente, a lungo, senza mostrare alcun segno di ribrezzo.
“Si, bene Florence, puoi andare. Ottimo pasto comunque, brava, davvero brava.”

Florence andò, letteralmente lasciò questa terra. Cadde stremata sul pavimento della sala da pranzo e da lì navigò nel nulla confortante del deliquio.

Si risvegliò dolorante e stordita, la testa trafitta da chiodi di sofferenza infissi fino al centro del cranio. Si rese conto, pian piano e con orrore, emergendo a fatica dalla nebbia plumbea del dolore, d’oscillare sospesa ad una trave con vari giri di corde robuste, costretta in una posa oscena, a cosce divaricate poco sopra la nuova fiammante cucina, quasi a cavallo del piano di cottura, appesa come una sconcia altalena a meno di tre spanne dal calore infernale della ghisa arroventata. La pelle sensibile delle cosce, le natiche, il sesso depilato erano esposti, indifesi e già riscaldati all’aria rovente che si alzava, mefitica e maligna, dai fornelli circolari per lambirla, carezzarla, circondarla e penetrarla nell’intimità aperta del sesso e nel buco posteriore, già dilatati dalla passione morbosa del padrone che l’aveva posseduta davanti e dietro anche mentre giaceva incosciente sul pavimento della sala da pranzo.

Intorno a lei le figure confuse nell’ombra dell’enorme stanza interrata iniziarono a prendere forma e volto. Il primo viso che riconobbe fu quello di Lord Willson, ironico, sprezzante, disgustoso ed equivoco nella luce incerta di qualche candela.

Florence s’accorse che ai piedi del padrone era accucciata, nuda e vinta, martoriata da sevizie e frustate, l’ashanti. Un alto collare borchiato le cingeva la gola e una pesante catena usata come guinzaglio la teneva stretta stretta a Lord Gregory, la guancia pressata sugli stivali, la bocca dischiusa e le labbra, che fino a qualche giorno prima erano state belle nella loro perfezione, spaccate in più punti e sanguinanti, devastate da innumerevoli colpi di bastone.

“Bentornata tra i vivi Florence, ti stavamo aspettando.”

Il nobile inglese sorrise affabile alla sua schiava mentre lei dondolava, appesa come carne da macello, sulla cucina di ghisa. Le sorrise affabile come se parlasse ad una gentildonna del suo stesso lignaggio ad un ballo di corte. La crudeltà di Lord Gregory che giocava, adesso, sulla pelle di Florence come pochi avrebbero fatto persino con un animale gelò l’anima di tutti in una morsa di terrore profondo e inusuale, inusuale persino in quei tempi di violenza e abusi, inusuale persino in quelle terre dove la vita di un essere umano valeva meno di qualche sterlina.

“Ora, mia schiava devota voglio concederti l’onore e il piacere d’insegnarti direttamente e personalmente alcune regole per il corretto uso di questa nuova, fiammeggiante e moderna cucina. Presta attenzione, Florence, e impara perché non ci saranno altre lezioni, per te.”

L’uomo slacciò i calzoni, lentamente, un bottone per volta poi, senza neanche abbassare lo sguardo verso l’ashanti, la forzò a prendere in bocca il suo sesso eretto, duro ed esigente. Penetrò le labbra della negra tra sangue e saliva e ne tenne la testa con forza tirando il guinzaglio, nel contempo, fino a strozzarne il respiro in corti asfitici rantolii.

“Lezione numero uno, la cucina, prima d’essere usata deve essere riscaldata a lungo con legna abbondante, secca e ben stagionata …”

Florence s’accorse che vicino allo sportello dal quale s’introduceva la legna stava una catasta di tronchetti tagliati a misura e, in ginocchio davanti alla cucina, addetta ad alimentarne le fiamme, anche lei nuda, a testa bassa e stremata dalle percosse per ridurne ai minimi termini il piacere di una qualsiasi vendetta, stava la schiava che per prima aveva sperimentato sulla sua pelle il maligno potere di Florence, la sua diabolica capacità di succhiare per ore il membro del padrone senza farlo venire.

“Lezione numero due, la carne, prima d’essere cucinata, deve essere ben battuta e poi scaldata sull’aria rovente delle piastre …”

Florence sentì le viscere smuversi in una danza incontenibile di puro terrore; dietro di lei, ad un cenno del capo del padrone, qualcuno lasciò scivolare per qualche centimetro le corde che la sospendevano sulle piastre roventi, qualche centimetro appena ma il calore già intenso che le tormentava le natiche e il sesso diventò quasi insopportabile.

“Lezione numero tre … tempi di cottura. Sempre adeguati alla carne. Ad esempio per il filetto di vitello bastano tre, quattro minuti, al massimo …”

La corda perse ancora qualche centimetro, Florence iniziò a gemere e supplicare.

“… per la carne di ratto ci vuole più tempo, diciamo, in agrodolce ad esempio, una decina di minuti, poco più, poco meno …”

Dietro di lei le mani che trattenevano le corde le lasciarano scorrere ancora per qualche centimetro.

“… per la carne di schiava dipende dal colore della pelle …”

La piastra rovente s’avvicinò ancora alle natiche di Florence che scalciava, per quel che poteva, strillando e supplicando, bestemmiando e piangendo.

“… se sono negre è meglio cuocere a lungo, molto a lungo …”

Florence sentiva già il calore vivo della piastra sfiorarle di tanto in tanto, oscillazione dopo oscillazione, le natiche ustionate. Iniziò a strillare come un’ossessa divincolandosi e torcendosi nel tentativo assolutamente vano d’allontanarsi dal calore insopportabile.

“… se sono puttane negre coperte da pelle bianca, nere troie depravate che si camuffano da gentildonne, allora, ci vuole il tempo di un pompino, un lungo, succoso e appagante pompino …”

Sotto di lui l’ashanti sentì il membro dell’uomo gonfiarsi e irrigidirsi, pronto a schizzarle in gola il suo carico di sperma, tentò di staccarsi, allontanarsi ma il guinzaglio la tenne stretta e immobile, a bocca spalancata, pronta a ricevere tutto il piacere del padrone senza perderene neanche una goccia.

Lord Gregory venne in un orgasmo di pura e sadica esaltazione e, come aveva ordinato, allo stesso momento Florence atterrò completamente sui fornelli roventi della cucina in un urlo straziante di dolore che scosse il castello fin dalle fondamenta.

La staccarono quasi subito e quasi morta dalla ghisa incandescente, sulla quale, però, rimase ben più di qualche centimetro quadro della sua pelle.

Quando ebbe finito Lord Willson allontanò con indifferenza la testa dell’ashanti e si ricompose con calma, assaporando voluttuosamente l’odore nauseabondo di carne umana carbonizzata, l’odore del suo potere assoluto.

“Lezione numero quattro, manutenzione. Pulire bene, grattare via i resti di carne dalle piastre ed accertarsi che tutto sia perfettamente in ordine per la prossima cottura. Tu, negra, hai riposato abbastanza, datti da fare …”

La schiava in ginocchio vicino alla cucina alzò lo sguardo verso i fornelli e poi verso Florence che ancora dondolava incosciente sopra la sua testa; svenne anche lei, un attimo dopo, scivolando di lato sulla catasta di legna.

Florence restò praticamente morta per tre settimane prima d’essere rimessa in piedi, in qualche modo, ed essere smerciata sottocosto al mercato degli schiavi di Williamsburg.

L’ultima cosa che vide il ventisette agosto del 1732, uscendo dal castello di Lord Willson trainata dalla carretta e catena al collo, fu l’ashanti crocefissa nuda, a testa in giù e coperta da sterco di maiale.
Ai suoi piedi, in cima alla croce capovolta, come in una blasfema pantomima della passione di Cristo, un cartello scritto con il suo stesso sangue, sangue color rosso rubino come quello di Florence: "MPOS, Makeda Princess Of Sheba".

“Dieci sterline e tre ghinee d’argento …”

Il sedere deturpato di Florence non impressionò Jeffry Fergusson, un irlandese massiccio e di poche parole, fabbro e maniscalco fin dalla nascita.

“Dieci sterline e tre ghinee d’argento, altre offerte? No? Nessuna?”

Oltre lo steccato alcune signore stavano ancora respirando a fatica dopo aver vomitato in lindi fazzolettini lo spettacolo osceno offerto dalla devastazione di Florence. Leggero difetto fisico. Cerchi concentrici in cicatrici ancora accese d’infezione, la pelle corrugata e incartapecorita delle natiche e, a contorno, focolai purulenti in piaghe profonde nella carne viva, questo era, per Lord Willson, un “leggero difetto fisico”.

“Aggiudicata per dieci sterline e tre ghinee. E’ tua Fergusson, vieni a prendertela, complimenti.”

Jeffry salì sul palco, afferrò con malagrazia la catena e sparirono nella polvere dello sterrato dopo pochi minuti. L’ultima cosa che i mercanti videro di questa storia fu Florence che incespicava nei suoi stessi piedi, cadeva per terra, si rialzava a stento, malferma sulle gambe e riprendeva la sua via crucis trascianta nella calura soffocante di mezzogiorno. Fergusson non si girò, non fermò la carretta, non rallentò con le redini il passo greve del mulo, continuò la trainare a peso morto la sua schiava lungo il sentiero, verso qualche meta oltre la curva del mercato, verso qualche meta oltre l’orizzonte dei vivi.

Qualcuno raccontò che il maniscalco l’avesse comprata per provare su di lei i marchi prima d’imprimerli a fuoco sulle natiche dei cavalli ma nessuno può dire se fosse vero o solo il frutto d’esaltata fantasia. In realtà di Florence Willson e della sua vita, oltre quel giorno, resta soltanto un’annotazione a margine del del Primo Libro dei Re X-13, vergata dal pugno di Lord Willson sulla sua Bibbia personale:

“AD millesettecentotrentadue, 27 del mese di Agosto, venduta Florence sterline dieci ghinee tre d’argento.”

Subito sotto, un’altra annotazione:

“In stessa data acquistato Brody, di mesi sei, razza beagle addestrato per caccia, pagato sterline trenta ghinee due d’argento. Speriamo non aver speso male il nostro denaro.”

Fine

2 commenti:

  1. che dire, non ho parole
    ...
    formattazione impeccabile!
    :P

    ps
    vista la musicalità del tuo scrivere, perchè non associare una musica in background che cadenzi lo stile e accompagni tutta la lettura?

    RispondiElimina
  2. Chapeau ;-).
    Grazie per il meritatissimo complimento.
    Curo con una certa attenzione la leggibilità formale dei miei racconti.

    Non saprei come fare e quale musica scegliere ma sì sarebbe bello, prima o poi ci provo.

    RispondiElimina

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