venerdì 2 aprile 2010

Secretary's secrets - I segreti d'un disastroso successo

Cosa succede quando alcuni ricercatori nel campo delle scienze psicosociali si mettono in testa di esplorare, senza pregiudizi e dati alla mano, il mondo del BDSM?. Se questa domanda vi può incuriosire siete pronti alla lettura di un testo che raccoglie articoli vari sotto il titolo piuttosto suggestivo di “Sadomasochism – Powerful pleasures” curato da Peggy J. Kleinplatz e Charles Moser.

Chi siano questi signori lascio a voi il gusto di scoprirlo con una semplice e rapida ricerca in internet: di loro ci sono biografie e profili professionali in almeno dieci siti, decine d’articoli in formato pdf pronti ad essere scaricati e anche indirizzi email perfettamente funzionanti ai quali – cosa insolita per noi ma normalissima per gli americani – si possono inviare domande ed ottenere risposte: già fatto con Moser e Dancer, funziona davvero, esistono!
Il testo, rilegato con elegante copertina dal sapore quasi fetish, è acquistabile on line per pochi euro (ISBN 1-56023-640-X) ed è scritto con un linguaggio estremamente semplice, divulgativo e ben poco specialistico. Semmai, il vero problema, è che non esistono traduzioni italiane degli articoli e, pertanto, chi non conosce l’inglese resta tagliato fuori. Un peccato perché, tra le pagine del testo, ci sono alcune osservazioni ed alcuni punti di vista che possono fare comodo anche a noi praticanti, a noi che il BDSM lo viviamo e qualche volta ci siamo così dentro da non riuscire a vedere le cose se non con le nostre regole prospettiche.

Ho scelto tra i tanti, per continuare la serie di discussioni sul BDSM filosofeggiato e praticato nel primo decennio del XXI secolo, un lungo articolo di Margot D. Weiss il cui contenuto riecheggia alcuni topic che nei forum a tema s’intrecciano e, periodicamente, si ripropongono in un’eterna altalena di punti di vista, spesso squisitamente personali e senza alcun fondamento né statistico né scientifico. Il titolo dell’articolo è “Mainstreaming kink: the politics of BDSM representation in U.S. popular media”. Non spaventatevi, tradotto in soldoni significa: la rappresentazione del BDSM in TV, nelle pubblicità, nel gossip, nei videoclip musicali, nei film -il tutto, insieme, fa “mainstream”- fanno bene o fanno male al BDSM?

Chiariamo, prima di tutto, i termini: cosa vuol dire “fare bene al BDSM”? Secondo Margot D. Weiss il “fare bene” coincide con l’aumento di “accettazione” di “comprensione” del BDSM da parte dei non praticanti, del tessuto sociale “normale”, dei non “coinvolti”. Accettazione e comprensione che servono, politicamente, ad abbassare le barriere, ridurre il livello d’isolamento dei praticanti e le distanze tra il “mondo BDSM” e il “mondo non BDSM”, il tutto in nome d’un valore che, culturalmente, accomuna tutti i paesi occidentali: la libertà individuale nelle scelte personali siano esse di natura sessuale, politica o religiosa. 

Si signore e signori si sta parlando del famoso quanto semi-sconosciuto sdoganamento ...

Il risultato della ricerca, condotta per sondaggi ed interviste su un ampio campione di non praticanti, è piuttosto deludente: l’aumento d’immagini, messaggi, film, letteratura, gossip ed eventi che utilizzano il BDSM o nei quali il BDSM è in qualche modo rappresentato non ha alcun effetto concreto sull’aumento del livello di “accettazione” e di “comprensione” , nessun effetto utilizzabile ai fini pratici per abbassare d’un poco la barriera tra i due mondi.

In particolare, secondo le conclusioni di Margot D. Weiss, si perviene in virtù di questo aumento d’esposizione ad un’accettazione “per normalizzazione” e una comprensione per “patologizzazione”. In poche parole è accettabile in quanto viene “travestito” di normalità ed è comprensibile se viene considerato un malanno incurabile, una sorta di condanna non voluta e non meritata legata ad uno stato patologico e pietoso della mente.

Strano percorso, quindi, quello che porta il BDSM sul proscenio del mainstream per oscurarne ancora di più l’essenza reale.

In particolare, il lavoro di Margot D. Weiss, analizza le reazioni al film di Lion Gate “Secretary”. La storia essenziale del film è più o meno nota: una giovane (Lee) afflitta, per problemi personali d’equilibrio mentale e sociale, da autolesionismo compulsivo, profondamente insicura, tirannizzata da una madre omnipresente e omnicomprensiva, sostanzialmente abbandonata da un padre alcoolista, viene assunta come segretaria da un avvocato paranoicamente preciso e sadico. L’avvocato in questione, Mister Gray, accortosi dei problemi della ragazza, la coinvolge in una relazione dom/sub che la libera della sua patologia distruttiva e la porta fino all’altare in un lieto fine di coppia felice: lui avvocato in carriera, lei docile ed appagata mogliettina della suburb (area periferica della città occupata dalle villette della piccola borghesia americana) in un quadro di cuori e baci alla vecchia maniera delle commedie americane happy-end/happy-days.

All’analisi degli effetti del film sui livelli d’accettazione e comprensione del BDSM da parte dei non praticanti Margot D. Weiss dedica ben quattro capitoli del suo ariticolo per un totale di quindici pagine. Non poco, direi, per un lavoro che, una volta tanto, non ha come oggetto i “praticanti” quanto, invece, i “non praticanti”: già e solo per questo ribaltamento di prospettiva ci sarebbe da inviare a Margot un bel mazzo di rose rosse.

I temi che Margot D. Weiss affronta nell’analisi del film sono, capitolo per capitolo:

1) il recupero attraverso il romanticismo, inteso come “accettazione attraverso la normalizzazione”;
2) il masochismo, inteso come “comprensione attraverso patologizzazione”;
3) il doppio sguardo inteso come “i mali della scorretta esposizione”;
4) “delusivamente” normale: ovvero il meccanismo per cui lo spettatore “normale” cerca immagini sempre più aderenti alla realtà che (nella sua testa) s’è creato in relazione al BDSM, immagini che non vengono soddisfatte dal mainstream.


Nell’analisi di Margot D. Weiss c’è anche, come substrato culturale, il confronto con l’emersione, l’accettazione e la comprensione dell’omosessualità e, rispetto alla normale quanto normalizzante propensione dei suoi connazionali, il suo articolo è “scientificamente devastante, impietoso e oggettivo”. Una volta tanto i bersagli di un’antropologa specializzata in scienze della mente, i soggetti da studiare, i comportamenti “disturbati” non sono quelli espressi dal mondo del BDSM ma quelli espressi dai vanillissimi fruitori delle sue rappresentazioni. 
Davvero, aprire una sottoscrizione per mandarle un bel mazzo di rose? Io ci penserei seriamente.

E’ interessante citare, per ogni capitolo, alcuni passaggi che ritengo emblematici e riassuntivi dei risultati del suo lavoro. Iniziamo con il “recupero attraverso il romanticismo” e l’accettazione attraverso la normalizzazione: “la dinamica dell’accettazione attraverso la normalizzazione significa che il BDSM è accettabile ai mezzi di comunicazione solo quando viene fuori che non è per niente BDSM” .

Questa frase è, per chi pratica, agghiacciante già di per sé stessa. Più agghiacciante è la visione del BDSM che viene fuori dalle interviste. I non praticanti, mediamente, descrivono la relazione BDSM come dura, violenta, dolorosa, fredda, distante. Questa visione catacombale viene capovolta nel finale del film dove la coppia, invece, agisce nel modo più “normale” possibile: un tenero bagno caldo, amore di vanillissima fattura e il sogno americano della casetta nella suburb con tanto di giardino fiorito annesso. Una sorta di “cenerentola” SM per la quale, alla fine, è arrivato un principe salvatore, solido capofamiglia e tenero marito, attento esploratore delle esigenze e dei problemi della moglie. Praticamente un rinforzo alla percezione della relazione classica americana, tacchino del ringraziamento incluso.

Passiamo al secondo capitolo. Nell’ambito della “comprensione per patologizzazione” non poteva mancare la caratterizzazione scenica di Lee come una “malata” dedita a pratiche insane di autolesionismo. E’ interessante notare come il pubblico si sia generalmente identificato con Lee e che questa identificazione simpatetica sia basata sulla pietà per una persona mentalmente disturbata, afflitta da una situazione familiare devastante e sull’orlo dell’annientamento: il costo di questa comprensione è accettare una masochista solo se la si può ritenere malata, bisognosa di cure, un caso pietoso, letteralmente un “basket case”, una vita da cestinare.

Scrive Margot D. Weiss: “la dinamica della comprensione attraverso la patologizzazione significa che i mezzi di comunicazione comprendono l’SM solo attraverso diagnosi di personalità danneggiate”.

Nel terzo capitolo viene descritta una realtà sociale che, spesso, la nostra frequentazione con telefilm e film ambientati nella “grande mela” o nella “lussuriosa California” ci porta a fraintendere ed ignorare. Il controllo sociale e l’emarginazione di forme alternative di sessualità è insito nei programmi del potere politico, il potere che fonda il suo permanere su valori morali, religiosi - e quindi familiari e sessuali- tradizionali. Non c’è un diretto riferimento ad uno o all’altro dei due grandi partiti statunitensi ma, in realtà, non esiste la necessità di distinguere in un paese dove per due anni un presidente democratico è stato in “forse” a causa d’un rapporto orale extraconiugale.

In questo capitolo del suo studio Margot D. Weiss semplicemente afferma, in modo antropologico, che l’accettazione per normalizzazione e la comprensione per patologizzazione niente sono se non strumenti culturali utilizzati per evitare d’accogliere nel corpo sociale in modo pieno e senza discriminazioni forme alternative di relazioni umane, quelle forme di relazione BDSM che potrebbero essere, in definitiva, più dissolutive dei cardini familiari-religiosi-civili tradizionali di quanto non lo sia la stessa omosessualità.

L’ingresso del BDSM nel circuito dell’informazione e dei mezzi di comunicazione attraverso i meccanismi di “normalizzazione” e “patologizzazione”, alla fine e praticamente, porta ad affievolire e snaturare la stessa cultura BDSM, trasformarla e degenerarla fino a renderla qualcosa di diverso che non è più SM e che può esitere, essere esibito, solo se accettato come “normale” o “incurabile”. Questi meccanismi alzano quindi, e di fatto, le barriere tra normale e non normale attraverso la creazione di un mondo immaginario al quale ci si deve adeguare e la cui esistenza è garantita solo in relazione al suo grado d’aderenza alla cultura dominante e alle sue regole.

Quarto ed ultimo capitolo: “Delusivamente normale”. Ammetto che “delusivamente normale” è una pessima traduzione di “disappointingly normal” ma rende bene l’idea anche se, “delusivamente”, ha il sapore un po’ amaro delle parole prese in prestito dagli anglosassoni. Eppure questa è la più frequente delle sensazioni che Margot D. Weiss ha raccolto in quasi due anni di sondaggi e interviste, soprattutto tra i giovani: delusione. Il BDSM è percepito come qualcosa che sta ancora oltre le immagini patinate e addomesticate del mainstream. Gli spettatori vogliono vedere, si vogliono identificare, con qualcosa di realmente fuori dai limiti, sporco, innaturale, rifiutano di credere alla versione addomesticata che trasmettono del BDSM Secretary, i completini fetish di Britney Spears, i videoclip musicali e le pubblicità di moda trendy. Rifiutano di credere nella rappresentazione addomesticata di qualcosa che s’immaginano ben diverso, ben più traumatizzante, ben più “lurido”, duro e trasgressivo. Il pubblico, vouyerista per natura e assuefatto ai reality nudi e crudi, vuole vedere la sua “verità vera” e in questa sua verità immagina un mondo nascosto, celato, eccitante, fuori dalle regole, un mondo perverso da fruire con il telecomando, rispetto al quale prendere le distanze, sentirsi normali e, contemporaneamente, trasgressivi.

L’effetto del mainstream, attraverso la banalizzazione è quindi quello di accrescere la fiducia nell’esistenza di questo mondo sotterraneo filtrato dal perbenismo dei mass media in immagini annacquate; per contrasto crea una fede cieca nell’esistenza di segrete stanze dove in realtà chi pratica compie abomini senza nome ai quali partecipare sarebbe fuori dal mondo ma che sarebbe stuzzicante vedere in tv, al cinema, riparati dalla possibilità di tornare ad essere bravi ragazzi e brave ragazze con un tocco di polpastrello sul telecomando: click, fine della serata, cosa c’è in frigo per lo spuntino notturno?

Conclude amaramente Margot D. Weiss che questa negazione del desiderio e questa sublimazione attraverso la fruizione di immagini sempre più hard, questo dualismo tra forme distorte d’accettazione/comprensione e la ricerca dell’estremo da vedere senza toccare, alzano ancora di più le barriere tra il vero BDSM e chi si avvicina, come spettatore, a questo mondo.
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Un articolo ed uno studio che pone al centro della questione, quindi, la percezione del BDSM da parte del pubblico non praticante, quel pubblico che fruisce solo della sua rappresentazione, più o meno realistica, senza né conoscerlo né accettarlo veramente nel corpo della società. In questo senso, e osservando in modo superficiale i risultati dello studio, ogni praticante potrebbe alzare le spalle e ritenere che non sia affar suo, in fondo. Si potrebbe obiettare che, in fondo, uno studio accademico su come il mondo “vanilla” percepisce e fruisce del BDSM è un problema che non ci riguarda. Si potrebbe, sì, ma sarebbe un grave errore strategico e culturale farlo.

E’ affar nostro perché anche in Italia, terra culturalmente colonizzata dagli Stati Uniti, le persone si accostano sempre più frequentemente al BDSM attraverso la TV, i film, videoclip musicali e siti erotici americani o americaneggianti. E non è pura teoria o pura accademia se proprio mentre scrivevo queste righe, buffa coincidenza, ho potuto assistere, su Rai Uno in prima serata, ad una sessioncina di spanking d/d, fulcro della pubblicità di una nota marca di jeans per giovanissimi.

Questo trend di sovraesposizione, se non contrastato dalla corretta informazione, dalla corretta presentazione e rappresentazione del BDSM tende, paradossalmente, a rinforzare e alzare le barriere, barriere d’incomprensione e barriere di repulsione sociale. L’incomprensione genera due diversi atteggiamenti: la condanna e la pietà. Essere, comportarsi, in maniera diversa non è lecitamente possibile se non al prezzo di un’etichetta di “quasi criminale” o di “caso patologico”. Queste etichette costringono alla misura, alla segretezza, alla chiusura, impediscono il dialogo anche con le persone affettivamente più vicine e spesso causano tensioni interiori che diminuiscono notevolmente e tragicamente la qualità della vita. E’ la strada per le doppie esistenze, per le relazioni clandestine, gli incontri catacombali con il dubbio del tradimento, i sensi di colpa che s’addensano su altri sensi di colpa. Una profezia di “distonia mentale” che si autorealizza nella schizofrenia di vivere i propri desideri all’ombra di barriere d’incomprensione, muri belli alti e ben spessi che impediscono di farlo serenamente e alla luce del sole.

La repulsione sociale genera una reazione di difesa, la sensazione di doversi in ogni caso giustificare rispetto la cultura dominante come se questa fosse davvero espressione di “normalità” psico-biologica. Da qui la ricerca di spunti d’attacco, la nascita d’inopportune forme d’intolleranza verso gli altri, i “diversi” da noi, i “vanilla”. Un’altra occasione persa per approfondire negli uni e negli altri dialogo e comprensione, un'altra occasione per restare nell’ombra di pregiudizi che noi stessi, poi, alimentiamo con comportamenti eccessivamente aggressivi di difesa-offesa.

Questo è quanto accade, ad oggi e sempre più frequentemente in assenza di una corretta informazione. Corretta informazione che non può passare dalle pubblicità e dai videoclip, non può giostrarsi sul filo di film, siano essi Secretary, o Histoire d’O o Luna di Fiele (ricordate?) dove l’impianto scenico, la narrazione, la fantasia è predominante rispetto il messaggio culturale.

Com’è e cosa succede se prevale la visione del BDSM che sta saturando i mezzi di comunicazione è chiaro, è scritto sopra. Volendo tirare le cose per i capelli (ma neanche tanto, giusto quello che basta) forse “stavamo meglio quando stavamo peggio”. Come potrebbe essere è, semplicemente, il contrario. Come sarebbe crescere e vivere in una società in cui la cultura della diversità è sacra? Dove nessuna forma di sessualità o di relazione può essere criticata a priori in nome di una “normalità” dettata solo dai numeri? Dove prima di tutto conta la realtà oggettiva delle persone? Sarebbe semplice, molto più semplice. Sottraendo le pratiche BDSM ai capitoli bui della psicoanalisi e creando un ambiente culturale curioso, non prevenuto, anche chi è attratto dal nostro mondo può esplorare e decidere se fa per lui o meno, senza condizionamenti.

Come sarebbe se la diversità fosse serenamente palesabile già al primo incontro con la donzella del nostro cuore? Come sarebbe se lei potesse rispondere con tutta tranquilità “guarda io so bene di cosa stai parlando, ma lo spanking non fa per me, piuttosto, tu, non è che ti faresti un po’ bondare?”

Come sarebbe se si potesse scegliere liberamente e senza problemi di sovrastrutture morali? Senza la necessità di nascondere “lati oscuri”? Quei “lati oscuri” che nel BDSM-SSC non esitono e semmai esistono solo nella letteratura, nella sua rappresentazione morbosa o nelle sue manifestazioni più plateali e meno consonanti alla filosofia del consensuale-sano-sicuro? Come sarebbe crescere in una società che comprende e accetta senza particolari problemi l’omosessualità, il BDSM, le devianze umane in generale come patrimonio e non come elemento di disturbo o spettacolo di cui fruire restando al riparo di una pretesa normalità, consolatoria quanto irreale? Sarebbe diverso, certamente diverso.

Questi sono né più né meno diritti fondamentali che il mainstream non ci sta portando, anzi, in qualche modo quello che si sta creando è solo un rumore di fondo molto intenso, con poche voce dissonanti. Dagli “spettatori” e fruitori di questo tipo di rappresentazione, alla fine, emergono le domande e le affermazioni che quotidianamente nei siti a tema trovano in contrasto i “puristi” e i “famolostranisti”, i sostenitori delle “pulsioni” irrinunciabili e chi semplicemente ritiene irrinunciabile la realizzazione di un proprio desiderio che non crea alcun danno a nessuno, la realizzazione di una propria libertà che lungi dall’idea di condividere con tutti dovrebbe essere, per lo meno, compresa ed accettata da tutti senza problemi.

E’ solo una questione di basilare importanza. Non è semplicemente un problema lessicale rifiutare la patologizzazione del BDSM che passa anche attraverso l’uso d’una terminologia di tipo clinico-psichiatrico, una terminologia desueta che utilizza in modo esegeratamente esteso una spiegazione “pulsionale”, una terminologia che ci rende simili a personaggi che riescono a trattenere la propria insanità solo grazie a valvole di sfogo da “minore dei mali”. Questo cancella, di fatto, la realtà e la realtà è che gran parte dei praticanti sono adulti consapevoli, persone che scelgono di vivere i propri desideri senza vincoli quando possono, con chi possono e come possono. Adulti in grado di differire nel tempo e nello spazio i propri desideri e realizzarli, quando e se le condizioni lo consentono, con altri adulti sani e consapevoli.

E’ solo una questione di basilare importanza. Non è semplicemente un problema lessicale o di “purezza degli eletti” rifiutare la “normalizzazione” che vorrebbe assimilare una scopata con manette al capo del letto o due sculacciate sul deretano di una bella fanciulla ad una sessione BDSM di frusta rendendo le prime tollerabili e socialmente accettabili così come la seconda pericolosa e insana: in questo modo si ridisegnano le mappe del BDSM ad uso e consumo della cultura dominante. Il problema sostanziale è che questo rumore di fondo si fa ogni giorno più alto e aggressivo ma dove la voce della diversità viene soffocata anche a casa sua, anche nei siti a tema, la speranza di avere, almeno sul web, uno spazio d’informazione corretta e realistica si perde a vantaggio d’un frastuono indistinto dove tutto è uguale a tutto e tutto è accettato, è accettabile solo se è finto, omologato e facilmente omologabile.

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