venerdì 9 dicembre 2011

Bisanzio




Anche questa sera la luna è sorta
affogata in un colore troppo rosso e vago,
Vespero non si vede, si è offuscata,
la punta dello stilo si è spezzata.
Che oroscopo puoi trarre questa sera, Mago?


Chiudo la porta dell'ufficio e rabbrividisco nell'impermeabile leggero. Sul pianerottolo la luce accende di squallido chiarore scale che portano a scale e a case sconosciute. La targa grigia e oro mi ricorda il tempo in cui (ma non si parla che di pochi anni or sono) andavo a incominciare, sicuro che valesse sempre la pena di provare, sempre valesse il gesto di gettare al vento, come in un prato in piena primavera, le carte logore e scoperte del passato per guardarle volare su nel cielo, oltre gli alberi, fino alle nubi e oltre.


Due scatti secchi e la serratura chiude oltre il legno e il ferro della blindatura tutti i miei averi, ciò che possego in terra che sa di materiale. Penso ancora, mentre attraverso l'atrio che c'era un tempo in cui tutto era sicuro, tutto camminava con il volto aperto e giusto di chi non ha provato quanto è duro il muro. Fuori, sul marciapiede sporco, piove rada una pioggia gelata e rimpiango il caldo che fino a ieri ho maledetto. E' nella mia natura rimpiangere i tesori che ho disprezzato o è nella natura umana sempre battere il muso come falena cieca e non vedere mai, mai e poi mai oltre la nebbia fitta e grigia della propria necessità di quel momento?


"Sono umano", mi ripeto e ora, davvero, non so se un vanto o una condanna.

Io Filemazio, protomedico, matematico, astronomo, forse saggio,
ridotto come un cieco a brancicare attorno,
non ho la conoscenza od il coraggio
per fare quest’ oroscopo, per divinar responso,
e resto qui a aspettare che ritorni giorno



Coraggio, la macchina a pochi metri ma la ferita aperta nel mio ventre li fa sembrare spazi siderali. Non voglio piegarmi per la strada e stringo i denti per non cadere. Li ho consumati, sai, quei molari a forza di stringerli e mangiarli sulle barricate di una vita fatta di lotte per avere scampoli di quel che ad altri ... ma è un'altra storia ancora.

Le chiavi son sempre in tasca, potrei partire, ora, andar in quale posto  ignoto oltrefrontiera, come in film di guerra di quelli in bianco e nero sparire nella notte cupa e oscura, ma dove sono, adesso, le frontiere? Dove son segnate le linee bianche e nere che dicono “di qui c'è il male, di là c'è il bene”? Vivere, amare non ammette divinar la sorte. La sorte d'amare, la condanna d'aprire il cuore, lasciar che altri esplorino le nostre chiuse stanze, toccando, guardando i nostri vecchi libri, i nostri bei balocchi. Lasciare che altri possan aprir porte, dar loro la chiave e guardare, con occhi vivi e attenti di bambino, cos'esce dal camino.

Mai ho creduto nel destino. Dicevo, io, il destino è solo un burattino che muoviamo a nostro piacimento per giustificare un passo falso, un fallimento, un no inaspettato, l'incidente aduso d'aver sbagliato. Io no, non io. Io carico il fardello, tutto, sulle mie spalle e piego il collo, accetto di pagare sempre ogni mio errore. Orgoglio del misero che nulla sa del mondo. Nessuno paga mai da solo ... nessuno lo fai mai ... neanche se vuole.


e devo dire, devo dire, che sono forse troppo vecchio per capire,
che ho perso la mia mente in chissà quale abuso, od ozio,
ma stan mutando gli astri nelle notti d’ equinozio.
O forse io, forse io, ho sottovalutato questo nuovo dio.
Lo leggo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando,
ma è un debole presagio che non dice come e quando…


Piove, freddo e gelido ora, entro nell'auto, sto tremando e devo riscaldarmi, almeno le dita se non il cuore. La chiave è nel cruscotto e gira in un click meccanico di meccanismi arcani. Ritorna alla mia mente il pendolo lontano nell'ultima stanza, quella rossa, in ebano nero.

Chi mai conobbe in vita il Principe Prospero? Ricordo che leggevo incuriosito la storia del gran ballo, in inglese naturalmente perchè così si resta più sul filo, tra un simbolo e una parola, tra i lento strisciar d'unghie spezzate sopra il legno marcio della bara e il gracchiar di corvi nella notte nera. Principe Prospero che richiude oltre il maniero la sua morte rossa. La mia l'ho accolta mille volte e lei, bastarda, s'è tramutata in sorte. Piccoli colpi, uno dopo l'altro come rintocchi di campana. Scricchiolar di ossa sotto la pelle, mentre sfiorisce il rosa delle dita e guardo, ancora vivo, il colore strano che la Sorella Oscura donerà alla mia mano.

Me ne andavo l’ altra sera, quasi inconsciamente,
giù al porto a Bosphoreion là dove si perde
la terra dentro al mare fino quasi al niente
e poi ritorna terra e non è più occidente:
che importa a questo mare essere azzurro o verde?


Penso, girando indietro il capo nella retromarcia che spesso son stato duro con me stesso, duro come la pietra con tutto il mondo te compresa. Ma ho finito, adesso di punirmi: ci pensa sempre il mondo a darti una lezione: meritata o no arriva sempre la mano della sorte a farti cambiar rotta, a darti nuova direzione.

Spera solo che non ribalti il guscio un po' meschino sul quale affrontiamo, di notte e nella nebbia, il navigare a vista nel mare del destino.

Sentivo i canti osceni degli avvinazzati,
di gente dallo sguardo pitturato e vuoto…
ippodromo, bordello e nordici soldati,
Romani e Greci urlate dove siete andati…
Sentivo bestemmiare in Alamanno e in Goto…

Città assurda, città strana di questo imperatore sposo di puttana,
di plebi smisurate, labirinti ed empietà,
di barbari che forse sanno già la verità,
di filosofi e di eteree, sospesa tra due mondi, e tra due ere…
 

Fortuna e età han deciso per un giorno non lontano,
o il fato chiederebbe che scegliesse la mia mano, ma…


Guido nella nebbia ora e non guardo l'orologio sul cruscotto. Desiderio assurdo di non essere aspettato, di non servire a nulla, di esser dimenticato. Amare non è un gioco. Amare è qualcosa d'inspiegabile e tremendo, qualcosa che apre dentro come un'accetta e lascia il vuoto oltre l'esistenza. Fermo la macchina sul lato, brucia quel taglio dritto e osceno che apre in due il mio ventre ma si, dicevo giusto ieri che forse anche questo serve a far capire che ormai un tempo è chiuso, da lasciare andare. Scherzando misuravo a gocce quello che anni e anni fa fluiva per cascate. Cambia la vita nostra ad ogni secondo. Noi con lei cambiamo per adattarci e vivere sereni la nostra dannazione d'aprire gli occhi ad ogni giorno nuovo e muoverci e inoltrarci camminando nella vita solo per fuggire al pensiero osceno che di noi nulla sarà oltre un mattino in cui nè il sole, nè mano amorosa, nè l'incombenza astiosa di centrare il water ci sveglierà dal sonno della morte.

Bisanzio è forse solo un simbolo insondabile,
segreto e ambiguo come questa vita,
Bisanzio è un mito che non mi è consueto,
Bisanzio è un sogno che si fa incompleto,
Bisanzio forse non è mai esistita
e ancora ignoro e un’ altra notte è andata,
Lucifero è già sorto, e si alza un po’ di vento,
c’è freddo sulla torre o è l’ età mia malata,
confondo vita e morte e non so chi è passata…
mi copro col mantello il capo e più non sento,
e mi addormento, mi addormento, mi addormento…



Resta il dolore e con il dolore rivedo un anno intero. Un anno in cui interrogo me stesso e cerco la risposta nella terra salda che sostiene ogni mio passo. Non sta nel cielo (pochi amici intimi lo sanno) la madre mia che cura le ferite e dona al mio vivere coscienza. Non sta tra stelle rade o fitte, nel girare eterno della luna bianca. Sta nel fango, nella roccia, nell'acqua che scorre, nel gabbiano che vola e pur di volare vola anche dove il cielo è nero di fumi avvelenati.

Spengo il motore e lascio che il buio prenda il sopravvento. Per stasera resto vivo, per stasera penso a chi mi ama e a chi amo. Per stasera voglio pensare che sempre fa bene amare. Voglio pensare che, dopotutto e in fondo, il destino esiste anche per farci, al fine della corsa folle e insana, ritrovare.

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