domenica 11 dicembre 2011

Aspettare ... aspettarsi.


Aspettare ed aspettarsi è un esercizio linguistico di rara bellezza estetica. Aspettarsi, soprattutto,  è una parola ambigua che segna le menti come una frustata o un giro di corda segnano il corpo.
Ci si aspetta nel senso che entrambi aspettiamo l'una o l'altra persona. Ci si aspetta nel senso che entrambi, dall'una o dall'altra persona, abbiamo già in lista quello che ci farà piacere ricevere, quello che ci farà piacere che venga accettato e ricevuto.
Il guaio è che sempre qualcosa si aspetta, che siamo sempre in perenne rincorsa del dopo, del poi, del conseguente che non è mai scontato, che non è mai nostro potere decretare.
Gestalt era ed è una filosofia d'approccio psicoterapeutico e qualcosa di più, è una filosofia di vita, è una bugia sociale che si materializza negli anni 60 ma che ha del vero, del giusto, del completamente errato.

Noi siamo esseri per il passato e siamo esseri per il futuro; noi non sappiamo essere ora , qui, e adesso.  Non siamo capaci, non ne abbiamo i sensi, la mente, i lombi, le palle o le ovaie per vivere il presente, il qui, l'addesso immantinente e fuggente.
Non m'appaga a lungo il piacere d'infliggere un piccolo dolore, ora,  adesso, gustarne l'umore aspro mentre cola, lieve, in un sottile rivolo di sorpresa dalle labbra della mia schiava, della femmina che sto usando come una bambolina, come un giocattolo di pezza per il mio piacere. Non mi appaga a lungo, non mi soddisfa se non per un attimo, già trascorso. Già prima che la sua sorpresa si sopisca, coprendo con labbra carnose i denti che sfavillavano piccoli strilli repressi, già prima la mia mente si stacca dal frutto succoso che ho appena addentato, se ne allontana  come da putrido liquame cercando la purezza gustosa di una più intensa sofferenza, d'un urlo un'ottava più alto, d'un più torbido esaltato languire di sensi, d'un più estremo pestare la suola sul suo capo, spingendone il volto nel fango della depravazione, nel giocoso, fertile fango dei nostri amplessi.
Così lasciamo che minute stelle attraversino la nostra mente come buchi neri senza rigirarne tra le dita il nulla splendente e senza veramente viverne l'empia bellezza. Così accumuliamo emozioni per riempirne stanze di polverose, false memorie, giocando con la nostra Gestalt nel ricomporne la forma assurda, convinti d'aver trovato prospettive sicure affacciandoci in balconi sospesi su abissi di nulla.
Scrivo, e ne sono convinto, che non siamo noi a decidere se cambiare o meno: a noi la decisione su noi stessi è negata anche quando un atto estremo ci sembra  di così  libera liberazione. Anche lì decide qualcosa che ci spinge oltre, che ci spinge via, noi non siamo attrezzati per fare l'unica cosa che possiamo fare.
Legati con dure corde sui sedili di legno d'un vecchio treno che sbuffa e corre verso una meta che non ci possiamo immaginare, potremmo soltanto goderci il panorama e il caldo del sole sul viso.
Ma siamo ciechi.
Ma non abbiamo volto.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti in questo blog sono s-moderati da me stesso medesimo. Quando ho tempo li leggo e li pubblico molto volentieri anche se sono di diversa opinione rispetto la mia, sempre che siano espressi con quel minimo di civiltà che servirebbe a non far finire una discussione in una rissa da saloon.